Lo slow journalism, un nuovo paradigma per il giornalismo
Un nuovo articolo dall'ultimo numero della rivista DESK. A questo link potete leggerla e scaricarla.
Alberto Puliafito (2024)
Il giornalismo è uno dei pilastri fondamentali della democrazia. Abbiamo bisogno di un giornalismo forte, indipendente e trasparente, che si concepisca al servizio delle cittadine e dei cittadini, aiutandoli a prendere decisioni migliori per le loro vite e migliorando quotidianamente la nostra comprensione della realtà. Tuttavia, il giornalismo contemporaneo soffre di svariate crisi interconnesse e aggravanti.
Crisi economica. Il modello di business tradizionale dei giornali, basato sulle vendite e sulla pubblicità, è in frantumi. Le vendite dei giornali cartacei sono in calo da decenni e il digitale non ha offerto soluzioni efficaci per arginare le perdite. La pubblicità digitale è monopolizzata dalle grandi piattaforme, che si sono dimostrate più efficaci nell’attrarre inserzionisti.
Di conseguenza, ogni contenuto giornalistico deve competere per la risorsa più scarsa: il tempo. Le redazioni sono spesso impegnate a rincorrere l’ennesima breaking news, sacrificando il tempo necessario per un vero approfondimento. E la sovrapproduzione di informazioni è in aumento costante, anche perché ora ci sono le intelligenze artificiali generative a favorire un’accelerazione ulteriore.
Crisi di fiducia. Questa corsa alla quantità ha portato a una diluizione dei contenuti di valore in un mare di articoli irrilevanti. La copertura delle notizie è spesso veloce e semplicistica, riducendo eventi complessi come le elezioni a mere competizioni tra vincitori e sconfitti. Questo approccio ha
peggiorato la percezione del giornalismo, contribuendo alla perdita di fiducia da parte del pubblico. Le ricerche qualitative mostrano una crescente sfiducia nei confronti dei media, parallela a quella verso le istituzioni.
Crisi identitaria. La terza crisi riguarda l’identità dei giornalisti stessi, spesso trasformati in “fabbriche di contenuti” senza tempo per verificare fonti e approfondire fatti. L’ossessione per la visibilità sui social e la trasformazione in influencer ha ulteriormente indebolito la loro credibilità. Inoltre, i giornali, a volte per scelta editoriale o per mancanza di tempo, finiscono per amplificare disinformazione e propaganda.
UNA RISPOSTA: LO SLOW JOURNALISM
In questo contesto di crisi, emerge lo slow journalism: è una risposta radicale alle scelte del giornalismo tradizionale. Introdotto da Susan Greenberg nel 2007, teorizzato da altre figure come quella del professor Peter Laufer, lo slow journalism propone un’alternativa attraverso saggi, reportage e scrittura non-fiction, che offrono una comprensione più profonda del mondo. Si ispira al concetto di slow food, promuovendo la trasparenza e l’approfondimento.
Dal contatto con Peter Laufer e altre persone che hanno lavorato su concetti simili – Rob Horchard, direttore di Delayed Gratification, Rolf Dobelli con il suo libro Avoid the News, la ex direttrice della BBC News Helen Boaden che ha parlato di slow journalism nel suo discorso di pensionamento – e grazie a una ricerca sul campo durata anni e ancora in corso - nascono le peculiarità dello slow journalism che stiamo mettendo in pratica in Italia.
Prima di tutto, abbiamo fondato una testata che si chiama Slow News.
Poi abbiamo raccolto teorie, racconti, esperienze in svariate parti del mondo in un libro (Slow Journalism – chi ha ucciso il giornalismo, di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, Fandango, 2019) e quindi abbiamo realizzato un documentario che si chiama Slow News, come la nostra testata. Il
lavoro teorico e di disseminazione di queste idee va di pari passo con lo sviluppo e la crescita di Slow News come testata, con produzioni originali di valore, a dimostrazione pratica di un altro giornalismo possibile.
UN MODELLO ALTERNATIVO
Ma cosa fa, esattamente, Slow News e come si pone, in generale, lo slow journalism rispetto al giornalismo tradizionale? La scelta più radicale è il rifiuto delle inserzioni pubblicitarie.
La pubblicità, infatti, cerca solo at- tenzione e non promuove una buona informazione. Il nostro modello si basa sulla membership e sulla diversificazione delle entrate: i contenuti sono liberamente accessibili, ma si chiede un sostegno economico a chi può permetterselo, per evitare che il giornalismo diventi un lusso per pochi. Per rendere sostenibile il suo lavoro, Slow News “monetizza” anche attraverso
bandi, eventi dal vivo, corsi di formazione: tutto ciò che garantisca assoluta libertà editoriale, che non è negoziabile. Di recente abbiamo anche lanciato un esperimento di rivista “lenta” cartacea. Questo approccio permette di mantenere l’indipendenza e garantire la qualità dei contenuti ma ha come difetto il fatto che, in assenza di grandi capitali alle spalle, si fatica. Tuttavia, Slow News esiste da quasi 10 anni, paga bene collaboratrici e collaboratori e si sostiene.
Comunità e relazioni. Lo slow journalism è anche un giornalismo comunitario, che coltiva relazioni tra redazioni e pubblico. Questo riduce le distanze, favorisce il dialogo e rende il giornalismo un servizio utile alle persone. Lo slow journalism pone le persone al centro del progetto gior-
nalistico, trattandole come pari e valorizzando le loro competenze e conoscenze. In questo modo, si costruisce un giornalismo che serve veramente le comunità, ascoltando le loro voci e raccontando le loro storie con rispetto e attenzione. È un giornalismo che non si limita a informare, ma che ispira e mobilita, contribuendo a una società più consapevole e partecipativa. Le persone non vengono educate o catechizzate ma riconosciute come “esperte” nei loro ambiti, per le loro esperienze, parti attive di una comunità che si informa e si aiuta a informarsi.
Adattamento. Lo slow journalism si adatta ai cambiamenti della realtà con un approccio ecologico e di riuso dei contenuti. Un contenuto valido oggi deve essere progettato per essere utile anche in futuro. Questo permette di trattare questioni di ampio respiro, mantenendo la rilevanza nel tempo.
Forza e gentilezza. Infine, lo slow journalism è gentile e forte. Non insulta, non aggredisce, non genera ansia, ma è capace di strutturarsi contro il potere e a difesa di chi è più debole quando necessario. Cerca di costruire conversazioni di valore, anche negli spazi digitali spesso considerati tossici. In un panorama mediatico dominato da toni aggressivi e polarizzanti, la gentilezza diventa un valore distintivo. Questo approccio non cerca lo scontro né l’ansia, ma promuove conversazioni costruttive e rispettose.
La gentilezza nel giornalismo non è sinonimo di debolezza, ma di un modo più efficace e umano di comunicare e informare. È una forza che costruisce ponti invece di alzare muri, che cerca la comprensione invece del conflitto. Si può essere gentili, ma anche rigorosi nell’esercitare il nostro dovere di watchdog del potere.
Contenuti automatici. Con l’avvento delle intelligenze artificiali generative, diventa ancora più urgente rallentare per produrre contenuti “umani”. In un’epoca in cui le macchine possono generare test in pochi istanti, lo slow journalism rappresenta un antidoto naturale, offrendo approfondimento e qualità in un panorama dominato dalla velocità e dalla superficialità.
Insomma: lo slow journalism è uno stile di vita, una disciplina rigenerativa che cerca di produrre valore per la comunità, contrastando l’odio, la disinformazione e la tossicità.
Il suo problema principale rimane la sostenibilità, ma il suo valore risiede nella capacità di fornire un’informazione autentica e di di qualità,indispensabile per una democrazia sana e vitale.
L'autore, ALBERTO PULIAFITO, è direttore di Slow News