Il ‘ruolo politico’ del giornalismo nel tempo della sfida digitale e antropologica
L’intelligenza artificiale veste tale aggettivo per un motivo chiaro: è il prodotto di un processo meccanico, la parola che si fa catena di montaggio, mera tecnica assemblata da un cervello digitale.
Essa è senz’altro frutto dell’ingegno umano, che l’ha creata artificiosamente, ma manca di densità antropologica, di anima filosofica, di romanticismo concettuale.
Credo sia questa la sfida del nostro tempo: non tanto combattere una forma di intelligenza che esiste e che per l’appunto è artificiale, bensì tornare a riempire di contenuto i vuoti lasciati dall’assenza della nostra ragione. In definitiva, si tratta di prendere consapevolezza e di rimettere a posto la gerarchia delle intelligenze, affinché quella legata al vissuto umano sia in grado di governare la realtà artificiale, evitando che il mezzo diventi il fine, una sorta di Frankenstein non più gestibile perché non fa altro che colmare quegli abissi spalancati dal “sonno del senno”, per utilizzare un gioco di parole che rende l’idea.
Costa un grande sforzo farlo, perché ciò che è tecnologia ci propone in modo allettante di sostituire la nostra fatica fisica e mentale, ma su questo crinale, che dal punto di vista antropologico può essere considerato apocalittico, si gioca la sopravvivenza del genere umano così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Sì, il mondo può senz’altro implodere per l’emergenza climatica, la cui responsabilità è sempre in capo agli uomini, ma questa stessa umanità può concludere la sua avventura terrena anche a causa dell’abdicazione della sua anima e del suo intelletto, in una dinamica meno lampante ma forse più subdola: ebbene, in questo terreno di prova più teorico ed astratto in termini di tangibilità, ma le cui conseguenze possono rivelarsi tremendamente concrete, la comunicazione è un’“arma” decisiva.
Basta pensare al mondo dell’adolescenza e all’utilizzo dei dispositivi tecnologici: leggevo in questi giorni un bell’approfondimento su Tempi, che riportava le parole di Stefano Epifani, presidente Fondazione per la Sostenibilità digitale all’Università di Pavia, secondo il quale “lasciare un bambino da solo su un social è come lasciarlo da solo nella piazza di una città sconosciuta”. Abbandonereste i vostri figli da soli in una metropoli? Non credo. Lo fareste nello sterminato universo digitale? Probabilmente sì, a parole magari no, ma nei fatti purtroppo accade spesso. E sapete perché? Perché è faticoso ed impegnativo interloquire con la tecnologia, crearvi una relazione costruttiva, esercitare il proprio ruolo di genitori, adulti, professionisti della comunicazione e farlo non per imposizione ma con l’autorevolezza di chi, con abnegazione e spirito di servizio, si rivela capace di conoscere un fenomeno per governarne i processi.
È qui, in questo tempo di grande mutamento per il mondo della comunicazione, che noi operatori della comunicazione dobbiamo prendere coscienza del ruolo per così dire sempre più “politico” che può e deve assumere il giornalismo. Non è più sufficiente, per quanto fondamentale, fare una buona informazione secondo i crismi della deontologia; serve, piuttosto, allargare gli orizzonti, pensare ed agire in termini politici, di visione e di formazione. Negli Stati Uniti, per fare un esempio, a maggio 2023 il Surgeon Generale Vivek Murthy, che è il più alto funzionario federale del dipartimento di servizio sanitario pubblico, nominato direttamente dal Presidente degli USA, ha lanciato l’allarme in seguito alla pubblicazione del documento sul rapporto tra salute mentale dei giovani e utilizzo dei social media, la cui stesura è il frutto di un approfondito studio (qui la pubblicazione, fonte Quotidiano Sanità): “mentre i social media possono offrire alcuni vantaggi, ci sono ampi indicatori che essi rappresentino anche un rischio di danno per la salute mentale e il benessere di bambini e adolescenti”, si legge nel rapporto che evidenzia come ormai molti adolescenti vivano costantemente sulle piattaforme digitali e sui social, il cui primo accesso sarebbe peraltro riservato a chi ha più di 13 anni e che invece avviene frequentemente tra gli 8 e i 12 anni.
Nasce da questi numeri l’appello del Surgeon Generale per “un'azione urgente da parte di politici, aziende tecnologiche, ricercatori, famiglie e giovani per raggiungere una migliore comprensione del pieno impatto dell'uso dei social media, massimizzare i benefici e ridurre al minimo i danni delle piattaforme di social media e creare ambienti online più sicuri e più sani per proteggere i bambini”. Per guidare un’auto occorre una patente, per maneggiare un fucile da caccia è necessario un porto d’armi, per svolgere determinate professioni ci vuole un titolo di studio. Invece, noi mettiamo degli armamenti in mano a giovanissimi, oppure a persone adulte assolutamente inconsapevoli, e non ci preoccupiamo delle conseguenze.
Non sarà per divieti di legge che risolveremo il problema, ma coinvolgendo chi detiene il sapere in un determinato settore: e se i medici o gli psichiatri analizzano gli effetti di un fenomeno, chi dovrebbe occuparsi delle cause, insieme naturalmente ad altri detentori di competenze, ad esempio in ambito psicologico e didattico, se non chi si occupa quotidianamente di comunicazione, forte degli strumenti e delle conoscenze della propria professione? Spesso in Ucsi si è dibattuto sull’“ora di comunicazione” nelle scuole, sul comitato di media etica, sui tanti mutamenti che attraversano ed imperversano nel nostro mondo professionale, cosa che stiamo facendo anche con questo #cambioschema estivo proposto dal nostro caporedattore Antonello, inesauribile miniera di elaborazione del pensiero ed impagabile facilitatore di confronto.
Ecco, penso che nella misura in cui sapremo riscoprire la vocazione del nostro lavoro, scavando nelle radici da cui esso attinge linfa vitale, per attualizzarle e declinarle in nuovi sentieri ed opportunità professionali, formative, progettuali e di proposta politica in senso lato, forse potremo restituire centralità al nostro mestiere e soprattutto contribuire ad una rinnovata alba della ragione e di un umanesimo ispirato, elementi dirimenti per il destino dell’umanità. Il lavoro, infatti, non può essere una realtà tecnica totalmente scissa dalla dimensione antropologica, morale, valoriale – direi anche storica, filosofica e spirituale – che attiene all’integralità della persona. Altrimenti trionferà sempre una qualsiasi intelligenza artificiale, più puntuale e metodica di quella umana. Non a caso, i padri costituenti con coraggio e visione hanno voluto aprire la nostra meravigliosa Costituzione con le parole “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, proprio all’indomani di anni atroci in cui qualcuno disumanizzava la persona al motto “Il lavoro rende liberi”. Un’azione politica ed una dichiarazione di valori utile a rimarcare il concetto che ogni medaglia ha il suo rovescio e che ciò che viene utilizzato per compiere le peggiori nefandezze, destinate a rimanere scolpite nelle pagine del “male della storia”, in realtà nelle mani sapienti di chi sa restituire centralità alla persona può essere esattamente lo strumento che nobilita l’uomo e la donna, in una dimensione in cui il lavoro è progetto e relazione, realizzazione personale e partecipazione al grande cammino dell’epopea umana.
Il nostro lavoro è proprio questo: è forza dell’intelletto, è bellezza ed atto generativo, è studio, dialogo e creatività, è forza del pensiero e volontà di esplorare la complessità del mondo, senza fermarsi alla superficie dei fatti e senza accontentarsi di una superficialità che oggi sembra dominare incontrastata, lasciando il campo all’artificialità di intelligenze potenzialmente utili ma effimere e dannose se non gestite con un minimo di barlume della ragione. Cambiare schema, in questo secondo ventennio del nuovo millennio, significa anzitutto acquisire piena consapevolezza di questo ed agire di conseguenza.
Sì, è vero: costa fatica. Tanta. Ma vale la pena farlo, anche perché non abbiamo molte altre scelte.
Spes contra Spem.